Nero d’Avola, il principe della viticoltura siciliana

Il Nero d’Avola eccellenza siracusana - Cantine Gulino
C’era una volta il Nero d’Avola, straordinario vitigno siciliano autoctono, oggi coltivato in tutta la Sicilia e apprezzato in tutto il mondo. Conosciuto con nomi diversi, tanti luoghi ne hanno rivendicato le origini nel corso del tempo: le sue radici ci conducono a Siracusa e sono corredate da una lunga, appassionante e travagliata storia di affrancamento, fino alla consacrazione a “principe della viticoltura siciliana”.

Nero d’Avola, vino simbolo del riscatto della viticoltura siciliana

Chissà perché mi chiamavano Calabrese.
Non l’ho mai capito.
Un tentativo errato di tradurre in italiano il termine dialettale calaulisi? O forse perché il carattere dei vini rossi prodotti dalle mie uve ricordava la proverbiale testardaggine dei calabresi?

Eppure le mie radici sono profondamente siciliane: le mie uve si sono crogiolate al sole di Avola, ameno centro a pochi chilometri da Siracusa, già rinomato per la tipica mandorla “pizzuta”. La mia casa è qui, nel siracusano, da che ne ho memoria.
Ne ho avuti di nomi, nel tempo. E ne ho fatta di strada per avere un riconoscimento che, senza modestia, meritavo.
Alla fine, però, sono riuscito a guadagnare un posto d’onore nella viticoltura italiana.
Adesso tutti mi amano, anche fuori dall’Italia: io sono il Nero d Avola.

VITIGNO NERO D'AVOLA, ORIGINE: MI CHIAMAVANO CALABRESE

Quando si parla di vitigni autoctoni siciliani sono in ottima compagnia: a Siracusa condivido suoli fertili e baciati dal sole con il Moscato e l’Albanello siracusano, vitigni storici e tipici di questa zona nel sud-est della Sicilia. Solo negli anni ‘70 la coltivazione della mia uva è stata estesa oltre il territorio di Siracusa, Avola e Pachino e diffusa al resto della Sicilia, ma solo di recente sono diventato uno dei vini rossi più rappresentativi della mia terra.

C’è stato un insigne studioso della viticoltura siciliana, Bruno Pastena, che di me aveva capito tutto: sosteneva che il termine Calabrese, con cui qualcuno si ostinava ad appellarmi, non doveva essere inteso come un riferimento geografico e che il mio vitigno, il Nero d’Avola, era – parole sue – “morfologicamente assai diverso dai comuni calabresi, diffuso con una denominazione che fa preciso riferimento a una zona (Avola), se non di origine, almeno di antica coltura, sufficientemente lontana dalla costa Calabra”.

Pastena affermava con sicurezza che il vitigno da cui nasce il mio vino è indigeno dell’area siracusana o, almeno, è qui coltivato da lungo tempo. “Il nome del nostro Calabrese ci appare più verosimilmente derivato dal fatto che, diffuso oltre i centri primari di coltura del siracusano, si sia voluto decantare l’ottima qualità del suo vino, ritenuto (o dato a credere, forse per tornaconto commerciale) simile a quello dei già assai reputati vini di Calabrese”. Tanti altri, poi, hanno scritto su di me, ipotizzando che, in origine, il mio vitigno fosse sì conosciuto come Calavrisi, successivamente ed erroneamente italianizzato in Calabrese, senza con questo voler però indicare un riferimento a una origine calabrese: l’espressione dialettale Calavrisi deriverebbe, infatti, da “Calea”, sinonimo siciliano di “racina” ovvero uva, e da “Aulisi”, ovvero di Avola (Aula era, in dialetto, il nome della cittadina di Avola, in provincia di Siracusa).

Dall’unione di “calea” e “aulisi”, uva di Avola, sarebbe derivato il nome Calaulisi.

Calavrisi, Calaulisi, Nero d’Avola: nonostante i tanti nomi e aggettivi che mi sono stati attribuiti, per numerosi decenni sono rimasto nell’ombra, anche se oggi sono considerato il vitigno più importante della Sicilia, anche se si sprecano gli articoli sui giornali che decantano i miei successi all’estero, anche se sono riuscito a restituire a questo territorio l’identità vinicola che, per lungo tempo, è mancata e intorno a cui costruire una cultura del vino di valore.

Nero d’Avola, vitigno principe della viticoltura siciliana

Scriveva bene Gaetano Savatteri nel suo libro Non c’è più la Sicilia di una volta: “in Sicilia si mangiava, ma non si beveva”.
Testuali parole. La cucina siciliana è “antica quanto l’Odissea”, la reputazione dei cuochi siculi nei tempi antichi era tale che “il coquus siculus venne trasformato in una caricatura consueta e familiare nelle opere dei più tardi autori della commedia classica”; a Siracusa esisteva una rinomata scuola per cuochi, fondata da Labdaco di Siracusa e un altro siracusano, Miteco (V sec.) aveva scritto uno dei più importanti testi sulla cucina, purtroppo oggi perduto.

A questa eccellenza gastronomica non corrispondeva, però, un’adeguata cultura del vino ed esperienza vinicola.

In Sicilia si beveva vino n’petra, il vino dei contadini, così detto forse perché – lo scrive sempre il buon Savatteri – “ne bastavano due bicchieri per restare impietriti sulla sedia, il sorriso ebete e l’occhio bovino a scrutare le briciole sulla tavola”. Eppure la Sicilia produceva abbondantemente vino: negli anni Ottanta, la superficie coltivata a vite era di 200.000 mila ettari; nel 1981, dai porti siciliani partivano quattro milioni e mezzo di ettolitri di vino sfuso destinati a tagliare i vini più nobili, toscani e francesi”.

Sì, avete letto bene: tagliare. Per decenni, è stato questo il destino recente dei vini siciliani, non solo il mio.
Solo un secolo prima, a metà del 1800, si parla di me in toni lusinghieri: nel 1846, lo storico Rosario Gregorio affermava che i vini di Avola erano fra i più pregiati e che l’uva si esportava copiosa in Francia, Olanda, Inghilterra. Avola, nel 1869, per la qualità e la quantità dei vigneti impiantati fu menzionata da Girolamo Caruso tra le contrade più rinomate. Anche Siracusa non era da meno, visto che alla fine del 1800, i vini rossi da uve di Nero d’Avola erano molto richiesti nel sud della Francia.

Com’è stato possibile, allora, perdere tutto questo?

Anche in Sicilia la terribile epidemia di fillossera che colpì l’Europa distrusse ettari di vigneti, cancellò buona parte dei vitigni siciliani, storici e autoctoni, decretò l’oblio di quanto di buono era esistito fino a quel momento. Ben poco sopravvisse.
Ed eccomi lì, relegato in un angolo, a tagliare, dare corpo e struttura ad altri vini. Ho dovuto attendere gli anni ‘80 e ‘90 per essere riscoperto, perché si verificasse quel “miracolo siciliano” grazie al quale i vini Nero d’Avola fossero elevati a produzione vinicola di tutto rispetto ed espressione del tipico terroir della zona in cui da secoli il mio vitigno affonda le sue radici.

Come nasce il Nero d'Avola: il ruolo di Giocosa e Tachis

Il merito della mia rinascita va – pensate un po’ – a due piemontesi trapiantati in Sicilia, che si innamorarono follemente del mio vitigno e scommisero, non senza difficoltà, sulla qualità delle mie uve e del vino che ne poteva nascere. Dopo lunghi studi e attente analisi, misero in evidenza le mie peculiari caratteristiche, le mie enormi potenzialità, soprattutto economiche, e l’opportunità di dare finalmente alla Sicilia l’identità vinicola che aveva ormai perduto
Quando mi “scoprì”, Franco Giocosa era un giovane studente universitario giunto in Sicilia negli anni Sessanta. Si convinse del valore e della qualità del mio vitigno al punto da decidere di rimanere nell’isola per completare i suoi studi e dedicare la sua tesi di laurea alle mie potenzialità economiche come vino nobile da bottiglia e non più solo da taglio.

Vino da taglio il Nero d’Avola? Un vero spreco, secondo Giocosa: io valevo molto di più!

Per dare corpo e sostanza alla sua idea, durante la sua collaborazione con l’azienda vinicola Duca di Salaparuta, raccolse l’uva di Nero d’Avola con l’intento, per la prima volta, di ricavarne un vino rosso Nero d’Avola in purezza.
L’impresa apparve subito ardua, richiese tempo, studio, impegno e sperimentazione continua. Per andare avanti, Giocosa aveva bisogno di una marcia in più. Decise, allora, di coinvolgere nel suo progetto di valorizzazione del Nero d’Avola un altro piemontese, Giacomo Tachis, celebre enologo italiano che aveva studiato a fondo la viticoltura isolana e conosceva i vini tipici siciliani.

Per Tachis fu amore a prima vista: “Se qualcosa di grande nascerà in Italia – disse – nei prossimi anni nascerà qui. E nascerà dal Nero d’Avola.”
Fu lui a coniare per me l’espressione “principe della viticoltura siciliana” e a cambiare radicalmente l’approccio al mio vitigno per troppo tempo relegato a un ruolo che non rendeva giustizia alle sue indubbie qualità. 

Vini Nero d’Avola: caratteristiche e qualità

Che vino è il Nero d’Avola?

L’uva da cui nasco è caratterizzata da un ricco profilo aromatico.
Il mio colore rosso rubino intenso anticipa profumi complessi che spaziano dalla frutta rossa matura (ciliegia e fragola) a lievi note speziate.
La mia struttura è ben equilibrata grazie al bilanciamento tra componente alcolica e acida, con un impatto tannico intenso e non eccessivo.
Sono corposo e di carattere, ma so essere anche vellutato e avvolgente.

La vendemmia avviene, condizioni climatiche permettendo, tra la seconda e la terza decade di settembre: qui, in Contrada Fanusa, dove vengo prodotto da lungo tempo, la raccolta dell’uva si svolge in due momenti distinti: nel primo, si raccoglie solo una piccola quantità di uva, che va ad appassire sui graticci di canne; dopo qualche giorno, si procede con la vendemmia generale e l’uva convogliata in cantina per i consueti passaggi successivi, diraspatura e pressatura. A questo punto, si uniscono le uve passite, frutto della prima raccolta, alle altre uve: questa pratica conferisce profumi, corpo, colore e il vino che nascerà ne risulterà rafforzato. Il mosto prodotto riposa, poi, in silos per circa una quindicina di giorni a contatto con le bucce.

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